Uno dei miei obiettivi del 2015 era quello di imparare una nuova lingua, e visto che mi piace fare le cose in grande non solo ho deciso di studiare lo spagnolo, ma ho scelto di trascorrere l’estate in Spagna ed insegnare in una scuola di italiano. In più, per complicarmi ulteriormente la vita, linguisticamente parlando, sono approdata nella catalana Barcellona.
Dopo un periodo di studio entusiastico con Babbel direttamente dal mio divano mi sono dunque ritrovata a tenere la mia prima lezione ad una meravigliosa classe di principianti assoluti con cui mi sono sentita immediatamente in dovere di mettere in chiaro che “io-NON-parlo-spagnolo”. Trascorse le prime due settimane durante le quali ho provato grande senso di colpa sentendomi poco lontana dal tipico straniero che gira per Firenze sperando di potersela cavare agitando le braccia e gridando “Ciao bella, pizza, amore” ho capito che per dare il massimo in classe non solo sarebbe stato necessario immergermi nell’apprendimento del castigliano, ma tornare studentessa. E l’ho fatto.
Ogni mattina, dopo aver tracannato un zumo de naranja ordinato con tutta la difficoltà che la jota comporta, frequentavo un corso intensivo di spagnolo. Per tre ore mi scervellavo sulle preposizioni, sbagliavo insistentemente l’uso degli articoli, mi ridicolizzavo mimando verbi di movimento alla lavagna; poi uscivo dalla classe e prendendo in mano il registro mi riappropriavo dei miei super-poteri.
È noto che tra gli italiani vige un certo pregiudizio nei confronti dello studio della lingua spagnola, secondo il quale impararlo è “facilissimo”, “basta stare sul posto”, “è uguale all’italiano”, e questo pregiudizio vale anche all’inverso. In una certa misura è innegabile che le due lingue abbiano moltissimo in comune sul piano lessicale, grammaticale e sintattico e che questo fattore velocizzi notevolmente il ritmo di apprendimento, ma quello che ho veramente imparato e che vorrei condividere partendo dal mio caso specifico è che, per essere buoni insegnanti di italiano come lingua straniera, è necessario tornare studenti.
È necessario tornare a provare la frustrazione di dover memorizzare irregolarità, di annoiarsi durante un esercizio di ascolto infinito e di trovarsi immersi nell’ambiente classe dall’altra parte della barricata, magari costretti a lavorare in coppia con un compagno che non ci va giù (perché sì, cari lettori, anche tra i trentenni esistono le antipatie a pelle e la competizione). Questo è il modo migliore per empatizzare veramente con i propri studenti diventando docenti più completi, sia sul piano strettamente professionale che su quello umano.
Scegliendo di frequentare un corso di lingua straniera vi confronterete non solo con altri studenti e con voi stessi ma con un vostro collega; potreste riscontrare delle affinità elettive o, al contrario, trovarvi completamente in disaccordo con il suo metodo didattico e tuttavia doverlo “subire”. Nel primo caso l’esperienza sarà proficua poiché potrete trovare nuovi stimoli e ampliare il vostro repertorio didattico; nel secondo potrete comprendere meglio quali sono i vostri punti deboli e analizzare profondamente quali sono i motivi della vostra incompatibilità avviando un processo di autoanalisi che vi porterà a comprendere cosa cambiare (e migliorare) del vostro approccio didattico.
Entrare in classe annunciando un’unità didattica sulle preposizioni e guardare i sorrisi dei vostri studenti nell’aggiungere “lo so ragazzi, le ho appena affrontate anche io. Ho sudato sette camicie” (e le avrete sudate davvero!) è una sensazione impagabile. Provare per credere.
Concludo ricordandovi che l’anno nuovo è vicino e che tra i buoni propositi del 2016 non può mancare lo studio di una nuova lingua!